Note sulla scissione
Nel modello teorico da cui deriva la TFP, si considera la scissione -insieme al suo corrispettivo descrittivo, la sindrome da dispersione dell’identità- come il marcatore del funzionamento psichico nella Organizzazione Borderline di Personalità. Per quanto sia riconosciuto che la scissione sia un concetto psicoanalitico che riguarda una specifica modalità di organizzazione dell’esperienza soggettiva, esso viene spesso utilizzato nelle accezioni più descrittive e semplificate. Sia che riguardi modalità di pensiero, di comportamento, o di organizzazione delle relazioni oggettuali sulla base dell’affetto che domina, si corre il rischio di limitarsi a dicotomie (buono-cattivo, vittima-amato, odio-amore, e via dicendo) che definiscono due mondi senza alcuna relazione l’uno con l’altro. Secondo la teoria delle relazioni oggettuali, quando nella patologia borderline si attiva una relazione oggettuale negativa (una rappresentazione del sé vittima e infiltrata di affetti negativi in relazione ad una rappresentazione dell’oggetto infiltrata da intenzioni malevole), il mondo di relazioni oggettuali “positive” è totalmente sequestrato, estraneo alla soggettività e quindi alla consapevolezza del paziente. Ciò è vero, ma molti elementi clinici impongono che vada in qualche modo considerata la relazione tra i due mondi di relazioni oggettuali. La teoria sostiene anche che è la fragilità delle positività delle esperienze relazionali nelle fasi precoci dello sviluppo (per qualsiasi fenomeno esse vengano prodotte) ad essere responsabile della fragilità delle rappresentazioni intrapsichiche che si formano attorno ad esperienze piacevoli, essenziali per produrre rappresentazioni di un oggetto buone e di un sé soddisfatto, da cui deriveranno i comportamenti affiliativi e le esperienze di amore con lo sviluppo conseguente della capacità di amarene di padroneggiare lo sviluppo della aggressività. Fatte queste premesse, a mio avviso si dovrebbe partire da tre aspetti molto presenti nella TFP, utile per un successivo approfondimento.
Il primo è che le “parti” -diciamo così- coinvolte nella scissione sono “rappresentabili”. Sandler affermava che il termine “rappresentazione” si riferisce non solo ad una esperienza soggettiva, ma anche a quello che si definisce “organizzazione non-esperienziale”. Per cui, per esempio, la “rappresentazione di sé” può essere una immagine, un’idea, un percetto (conscia o inconscia) di sé in un particolare momento, o un gruppo di queste cose che condividono una identità comune. Tutto questo è esperienziale, ma si deve aggiungere che è anche a una organizzazione “non esperienziale” cioè una struttura. Il termine “struttura” intende una organizzazione di funzioni o processi che sono relativamente stabili e durature nel tempo, e che organizzano il comportamento e l’esperienza soggettiva. Abbiamo strutture “di superficie” che sono tratti osservabili e descrivibili, e strutture “profonde” che sono inferibili dagli elementi osservabili della personalità. Le relazioni oggettuali interne primitive, cioè le diadi, sono i building blocks delle strutture profonde (cioè le relazioni oggettuali più mature ed integrate) e organizzano le motivazioni e i comportamenti che ne derivano.
In poche parole, l’assunto di base della teoria delle relazioni oggettuali in relazione alle strutture neurobiologiche sottostanti è che le diadi sono il riflesso della disponibilità della differenziazione tra sé e oggetto fin dai primi mesi di vita, e che le rappresentazioni di sé e dell’altro diventano intimamente connesse l’una all’altra (a formare una inscindibile unità) sotto la spinta di peak affect states, cioè di stati affettivi molto intensi. Queste esperienze affettive connesse a immagini di sé e dell’altro si aggregano e diventano una cosa stabile, cioè una struttura stabile, quindi “non esperienziali”, grazie al fatto di essere internalizzate come memorie affettive.
Quanto detto finora appartiene al mondo della teoria psicoanalitica, in particolare agli indirizzi aperti da Fairbairn, Klein, Mahler, Jacobson e Kernberg. Tuttavia è bene sapere che quanto detto finora non è un indirizzo comunemente condiviso. Alcuni, cui ci si riferisce come indirizzo neo-bioniano (Levine, Ferro, Civitarese per citarne solo alcuni) sostengono, in pratica, che i pazienti BPO, cui essi si riferiscono come pazienti non-nevrotici (Green) hanno “qualcosa” che non può essere definito una rappresentazione poiché non ha ancora raggiunto una “sufficiente presenza in forma figurata” (Levine). Detta in altri termini, non ha ancora raggiunto una solidità tale da avere le proprietà psichiche che noi attribuiamo alle diadi. Al contrario, si tratta di “stati indistinti o eruttivi di turbolenza emotiva o …difficoltà di pensiero e di processi psichici regolatori…” (ib.). Secondo questi autori tale mondo interno può essere “invisibile” o solo debolmente discernibile come contenuto, almeno finché la sua traccia non si rafforzi o si trasformi in entità (cioè divenga una rappresentazione) tramite un processo intersoggettivo di costruzione o di co-costruzione. Il processo terapeutico non è certo attivato da chiarificazione, confrontazione e interpretazione, o almeno non solo e non primariamente, poiché questi stati mentali non rappresentati richiedono che “l’azione del terapeuta sia fatta di atti non solo fisici ma di spontanea, intuitiva e interiore risonanza emotiva e/o espressione (cioè sentire o immaginare ciò che il paziente non può ancora chiaramente sentire o sapere) che formano la raffigurabilità psichica”, formando una immagine che esprime qualcosa di implicito o imminente ma non ancora rappresentato nella psiche del paziente o del terapeuta. In sostanza al terapeuta viene richiesta non solo la ricettività ma una forma di azione più intuitiva che deduttiva, una azione che in fondo è un riflesso e una risposta alla comunicazione inconscia. Questi autori sostengono quindi che l’azione terapeutica è intersoggettiva e trasformativa e contribuisce come catalizzatore, co-costruzione, o alter ego al rafforzamento in atto del paziente e alla formazione delle rappresentazioni e della struttura psichica. Potremmo dire che la struttura psichica viene costruita e formata dal nulla, ma all’interno della terapia. Per quanto anche la TFP contempli la “intersoggettività” (basti pensare al ruolo del controtransfert, delle reverie o della role responsiveness) è bene conoscere le implicazioni di questa profonda distanza nella teoria. Sarà bene per comprendere soprattutto il senso dell’azione terapeutica, che nei due casi è molto differente. Se questo approccio tende a costruire rappresentazioni, la TFP prevede che si integrino strutture esistenti seppure primitive.
Così come gli autori prima citati anche Fonagy non ha alcuna intenzione di ammettere che i gravi disturbi di personalità hanno stati mentali “rappresentati”, cioè diadi. Però nella sua visione, che si lega a tante cose dette sulla “selettiva assenza di specifiche capacità mentali” (Bion viene accreditato come quello che, quanto meno, più suggestivamente ha affrontato il nodo) l’assenza delle rappresentazioni psichiche non è dovuta al fatto che non si sono formate, ma perché sono attivamente distrutte. Esse non sono parte del meccanismo difensivo, ma diventano esse stesse oggetto di difese. Il soggetto, sulla scia delle esperienze traumatiche, attacca la rappresentazione stessa, facendola scomparire, poiché se l’oggetto fosse rappresentato sarebbe così pieno degli angoscianti contenuti cattivi e traumatizzanti che l’unica forma di adattamento diventa “selettivamente inibire” la capacità di costruire rappresentazioni psichiche. Rinunciare alla possibilità di pensare sugli stati mentali degli altri (cioè mentalizzare) può essere l’unico strumento disponibile per gestire il terrore che deriverebbe dal prendere in considerazione i desideri profondamente e realmente distruttivi degli oggetti primari. Per questo a differenza della analisi del transfert, come avviene in TFP, Fonagy e i suoi collaboratori propongono, nella forma di terapia che hanno validato, che si riattivi il “processo evolutivo” nella accezione data da A. Freud.
Questi punti di vista sono utili per introdurre il secondo punto dei tre che citavo, cioè è il ruolo degli affetti. Kernberg affermò che il mondo psicoanalitico non comprese appieno l’importanza di ciò che aveva detto Jacobson quando rivide la teoria psicoanalitica degli affetti e costruì il “mondo rappresentazionale”. Jacobson, nonostante il linguaggio complesso e non facilmente traducibile nella dimensione clinica -aspetto cui in teorici delle relazioni oggettuali sono molto sensibili- fu la prima a creare un legame inscindibile tra la rappresentazione interiore di sé e degli altri e la forza motivazionale dell’affetto che tiene insieme le specifiche rappresentazioni. Se dovessimo chiederci dove la TFP ha più pescato o a chi Kernberg è più debitore, direi che questo è il concetto che è stato più sviluppato e che ha dato maggiore identità alla TFP. Quando si riassume l’importanza del suo lavoro, raramente la revisione della teoria degli affetti viene citata come ciò per cui Kernberg sarà ricordato, per quanto lui lo abbia ribadito per diversi decenni. L’appassionato di TFP potrebbe ripercorrere i lavori che hanno definito il percorso: dapprima gli affetti come forza motivazionale e il loro rapporto con le pulsioni, poi gli affetti come “peak affect states” per lo sviluppo -quindi le vicinanze con i neo-kleiniani nella polarizzazione degli stati affettivi primitivi (buono-cattivo)- e da ultimo, e a conferma, le sinergie con le neuroscienze affettive, che davvero non sono poche né irrilevanti (si veda Panksepp per i sistemi affettivi di base, o più recentemente Solms sulla soggettività e gli stati di coscienza ).
Il terzo punto, direttamente legato ai primi due, concerne il rapporto tra le parti scisse. Fatte queste premesse su rappresentabilità e ruolo degli affetti nella TFP, che legame esiste tra le relazioni oggettuali scisse? E come la teoria ci viene in aiuto nella clinica? Steiner scriveva che “l’oggetto buono, nella scissione, è dentro l’oggetto cattivo”, ma ciò non aiuta troppo a cogliere il legame. Non dimentichiamo poi che, in origine, gli aggettivi schizoparanoide e depressivo non sono riferiti a fasi dello sviluppo psichico (o della terapia) ma a posizioni. Vale a dire sono modalità di funzionamento che si alternano nel breve o nel più ampio periodo, a volte anche nella stessa seduta ed in pazienti molto diversi tra loro, anche se il processo verso la maturazione porta a massimizzare il funzionamento da posizione depressiva e minimizzare quello schizoparanoide che, come sappiamo, si fonda sulla scissione. La TFP tende a dare prevalenza al significato di “fase” ma si sforza di non trascurare l’altro.
Il primo passaggio su cui meriterebbe riflettere consiste nella necessità di comprendere come viene custodita una relazione oggettuale positiva, per quanto fragile essa sia, come nei gravi disturbi di personalità. La differenza tra le posiziono -o fasi- schizoparanoide e depressiva sta nella fragilità con cui, nella prima, le esperienze affettive legate a relazioni positive sono mantenute in vita. Tutti i pazienti gravi entrano in terapia tentando di attualizzare una relazione oggettuale positiva, o investita libidicamente. Il paziente, a mio avviso anche se non appare immediatamente, investe il terapeuta di una forte idealizzazione, che a taluni sembra erroneamente una reale capacità di amare, o di essere solidamente coinvolto nel trattamento (da cui la fragilità degli atteggiamenti terapeutici fortemente supportivi), ma la realtà fa capire rapidamente al paziente che l’oggetto reale non ha le qualità idealizzate. Lo scollamento tra i due produce un tentativo di hold on l’oggetto positivo -come descrivono bene gli autori neo-kleiniani- e quando ciò si rivela impossibile la frustrazione costringe ad attivare, come una forma di relazione oggettuale possibile per salvare una coesione psichica, l’identificazione dell’oggetto con le qualità frustranti e persecutorie. Il vantaggio è ben noto, come diceva Fairbairn “una relazione oggettuale fondata sul male è pur sempre meglio di nessuna relazione oggettuale”. Ma vi è dell’altro, e questo è che almeno in fantasia o in un retreat psichico, l’oggetto buono sopravvive.
L’utilità del concetto di scissione sta nella possibilità di comprendere che la separatezza tra opposte modalità di relazione oggettuale implica un nesso, un filo che collega le parti scisse. Ciò significa che, per quanto i segmenti aggressivi siano autonomi e totalizzanti (cioè noi vediamo e lavoriamo solo con quelli) sappiamo tuttavia che da qualche parte, in atteggiamenti nascosti o banalmente superficiali del paziente, si cela la relazione oggettuale positiva, libidicamente investita, che garantisce un minimo di integrità psichica, quella indispensabile per permettere alla TFP di realizzarsi.
Dr. Sergio Dazzi