John Steiner e “I rifugi della mente”
Premessa
Un prezioso contributo di John Steiner riguarda una particolare condizione psichica da lui definita “i rifugi della mente” di cui offre una descrizione clinica, un modello teorico e una riflessione sulla tecnica dell’interpretazione. In quest’ultimo punto affronta una sottile ma fondamentale riflessione sulla tecnica che permetta all’analista di modulare il suo intervento con il paziente tra il “comprendere” con “l’essere compreso”. Questo contributo teorico clinico costituisce uno dei pilastri su cui poggia il modello della TFP.
1. I rifugi della mente
Per rifugio della mente, Steiner intende un luogo psichico, una condizione relativamente protetta da minacce esterne, incluso l’analista, presente nei pazienti con organizzazioni borderline o psicotica di personalità. Può assumere forme molto variabili causando assenza di contatto, pseudo contatto, stagnazione nella vita oltre che nell’analisi del paziente. Viene descritta con le forme metaforiche di una casa, una fortezza, un’organizzazione, una setta, un regime, una gang criminale; oppure lo spazio all’interno di oggetti, come il grembo della madre, il suo intestino, luoghi desiderabili ma proibiti.
Nella sua connotazione di “rifugio” offre protezione ma anche uno stallo, una quota di isolamento; può essere un asilo piacevole o un luogo crudele ma apprezzato per il senso di familiarità. L’analista può sentirsi chiuso fuori da questo rifugio o eventualmente ne può essere inglobato e l’analisi stessa viene trasformata in rifugio diventando a sua volta stagnante. Lo scopo è quello di limitare o evitare il contatto con la realtà su cui viene proiettata una minaccia. Steiner afferma infatti “le organizzazioni difensive servono legare, neutralizzare e controllare la distruttività di tipo primitivo quale che ne sia l’origine” (p.21). Neutralizzare e contenere impulsi distruttivi primitivi: perciò il paziente sceglie oggetti distruttivi nei quali proiettare parti distruttive del suo Sé. Il risultato è una sorta di compromesso tra l’espressione della distruttività e una difesa contro di essa. Ne conseguono un indebolimento della personalità, ostacoli al contatto con la realtà, alla crescita e allo sviluppo.
Nei pazienti con organizzazioni borderline e psicotica di personalità una potente identificazione proiettiva mantiene e alimenta questa organizzazione difensiva, impedendo il recupero di parti proiettate. Tutto ciò ostacola la reversibilità della identificazione proiettiva che richiede invece il riappropriarsi di parti di Sé proiettate, affrontando le conseguenze di ciò che appartiene a Sé e cosa all’oggetto: questo implica l’elaborazione del lutto e conseguentemente tutta la complessità della posizione depressiva.
Il rifugio offre una assuefazione e una gratificazione perversa. Le relazioni perverse e le perversioni sessuali hanno l’effetto di cementare l’organizzazione: “I legami che tengono insieme l’organizzazione sono spesso sadomasochistici e comportano un crudele dispotismo in cui gli oggetti e il paziente sono controllati, oppressi in modo implacabile. Talvolta il sadismo è evidente ma spesso gli aspetti tirannici sono idealizzati e vengono ad acquisire una forza di seduzione sul paziente che sembra esserne diventato dipendente e spesso riceve da questo stato di cose una gratificazione masochistica” (p.31). Questa descrizione mostra chiaramente la tenacia con cui resistono relazioni oggettuali sadomasochistiche nelle quali viene idealizzata la potenza dell’oggetto da cui si dipende.
Il ricorrere al rifugio della mente permette di difendersi sia dalle angosce della posizione schizo-paranoide che da quelle della posizione depressiva. Per questi motivi Steiner definisce i rifugi della mente come una terza posizione, la “posizione borderline” in relazione sia con quella depressiva che quella schizoparanoide.
2. Posizione schizoparanoide e posizione depressiva
Quando un paziente tenta di uscire dalla condizione protetta del rifugio può sperimentare un crollo psichico e un senso di panico. Queste angosce possono essere ben descritte da diverse condizioni, proprie della posizione schizoparanoide e di quella depressiva.
La differenza fondamentale tra le due posizioni riguarda innanzitutto la capacità di integrazione, cioè la capacità di mantenere una rappresentazione integrata delle rappresentazioni di sé e dell’oggetto nelle loro qualità positive e negative. Poi c’è il passaggio dalla preoccupazione per la sopravvivenza del Sé al riconoscimento della dipendenza dall’oggetto e conseguentemente la preoccupazione per l’oggetto.
Nella posizione schizoparanoide (P/S) il soggetto è minacciato da una marcata distruttività interna derivante dalla pulsione di morte che viene proiettata sull’oggetto creando una relazione persecutoria (“odio l’oggetto cattivo che mi minaccia”); analogamente l’investimento libidico derivante dalla pulsione di vita viene proiettato sull’oggetto creando una relazione libidica gratificante (“amo l’oggetto che mi ama”). In P/S le due relazioni oggettuali sono tenute separate mediante la scissione del soggetto e dell’oggetto.
Steiner propone una differenziazione all’interno della posizione schizoparanoide: una fase più grave di frammentazione patologica (Bion, 1957) e una fase di scissione normale, intesa anche come fase fisiologica nello sviluppo del bambino (Segal,1964). Se l’angoscia persecutoria diventa eccessiva e non viene più gestita dalla scissione normale si attiva una scissione in minuscoli frammenti che poi vengono violentemente proiettati con la creazione di “oggetti bizzarri” (Bion, 1957) con un panico estremo, spersonalizzazione e derealizzazione. Questa situazione configura la frammentazione patologica, forma estrema della scissione.
Nella posizione depressiva (D) il processo di integrazione porta al vissuto di ambivalenza cioè amore e odio per l’oggetto percepiti simultaneamente. La preoccupazione primaria per la sopravvivenza per il soggetto si sposta verso una preoccupazione per la sopravvivenza dell’oggetto da cui dipende. Ne derivano sentimenti di perdita e di colpa con l’elaborazione del lutto. Nel bambino si sviluppa la funzione simbolica, emergono capacità riparative e il pensiero non è più concreto.
All’interno della posizione depressiva, Steiner differenzia la paura della perdita dell’oggetto dall’esperienza della perdita dell’oggetto. L’obiettivo della funzione depressiva è mantenere integro l’oggetto buono e proteggerlo dagli attacchi distruttivi che potrebbero portare alla sua perdita e quindi all’esperienza del lutto. L’elaborazione del lutto è preceduta da una fase di diniego della perdita dell’oggetto attraverso un tipo particolare di identificazione proiettiva che consiste nell’identificazione con l’oggetto perduto, che contrasta appunto con la sua perdita. Questo diniego è espressione della paura della perdita dell’oggetto che precede e porta successivamente all’esperienza della perdita dell’oggetto. L’identificazione con l’oggetto perduto rende vivo l’oggetto ma anche morto il soggetto. La capacità di accettare la perdita passa attraverso la differenziazione del soggetto dall’oggetto e questo porta a una conclusione della elaborazione del lutto.
Si parla di “posizione” e non di “fase” per l’alternanza dialettica tra due modalità di funzionamento mai definitivamente abbandonate. Questa dialettica costante crea una sorta di equilibrio chimico sintetizzato da Bion (1961) nella formula P/S Û D.
Il rifugio della mente si pone come una terza posizione definita “posizione borderline”, in continuità sia con P/S e che con D e, analogamente a queste, “può essere considerata un raggruppamento di angosce, difese e relazioni oggettuali, ma la sua struttura è contrassegnata dalla rigidità conferitale dalle organizzazioni patologiche della personalità” (p.48). Quando il processo analitico si trova in uno stallo, il paziente si rintana nel rifugio, emergendo raramente dove affronta angosce di P/S e D.
3. Alcuni riferimenti teorici
Steiner riprende vari autori che descrivono sostanzialmente come il Sé libidico del paziente venga intrappolato e dominato da parti distruttive interne proiettate, in una relazione narcisistica di tipo perverso.
Tra questi cita Rosenfeld (1971a) per il quale l’origine interna della distruttività primaria prende la forma dell’invidia primaria che minaccia di distruggere il soggetto dall’interno. La parte dell’Io che contiene questi impulsi è scissa ed evacuata attraverso l’identificazione proiettiva su oggetti esterni con l’attivazione di angosce paranoidi per la percezione di oggetti minacciosi, resi tali dalla proiezione. Una parte debole e dipendente del Sé (il Sé libidico) cerca di entrare in contatto con l’analista ma viene contrastato dall’alleanza tra le parti distruttive del Sé con gli oggetti distruttivi, o le parti distruttive dell’oggetto. Questa alleanza costituisce per Rosenfeld l’organizzazione narcisistica. È dunque la parte distruttiva a impedire il contatto autentico con l’analista.
Secondo Sohn (1985) nelle organizzazioni narcisistiche, attraverso l’identificazione proiettiva, il soggetto sente di diventare l’oggetto acquisendone consciamente o inconsciamente tutte le qualità con un senso di onnipotenza. La relazione tra la parte bisognosa dipendente del Sé e la parte narcisistica onnipotente è considerata di tipo perverso.
La Riesenberg-Malcom (1981) descrive un’organizzazione psichica nella quale sono predominanti gli aspetti masochistici perversi. Attraverso l’autopunizione il paziente cerca di utilizzare l’espiazione e la sofferenza per evitare di percepire “lo stato di deterioramento dei suoi oggetti interni e così eludere il senso di colpa. L’autopunizione prende il posto della riparazione” (p.75). In altre parole, una parte tirannica e distruttiva del Sé domina la parte bisognosa impedendo il contatto con gli oggetti buoni.
Betty Joseph (1982, 1983) sviluppa ulteriormente la relazione perversa tra la parte distruttiva e quella bisognosa e dipendente, mostrando come la sofferenza del paziente può essere utilizzata per trionfare sulla parte bisognosa capace di investimenti libidici. “Il rifugio fornito dalle organizzazioni patologiche della personalità attrae come una promessa di pace e di tranquillità, ma in altri casi (…) il rifugio è un luogo terrorizzante, ma il paziente vi ricorre come un tossicodipendente ricorre alla droga. In parte ciò è dovuto alle componenti masochistiche, che permettono di ricevere una gratificazione sessuale da una condizione di dolorosa dipendenza” (p. 76).
4. Riflessioni cliniche
Nelle circostanze in cui avviene un miglioramento psichico, il paziente è maggiormente in contatto con gli oggetti buoni e si attenua il controllo dell’organizzazione (intesa come il prevalere degli oggetti persecutori che dominano gli oggetti buoni in una relazione perversa). Questo miglioramento può indurre piccoli movimenti al di fuori dal rifugio ma con brusche retromarce per la convinzione di essere ancora dipendente dall’organizzazione con il timore di una qualche catastrofe. Il paziente può avere addirittura il timore di riconoscere il proprio miglioramento perché contrasterebbe con il persistere di una “voce interna” che afferma la necessità della “organizzazione”. Si crea una sorta di “assuefazione alla malattia e alla dipendenza dall’organizzazione, ed è qui che gli elementi perversi diventano manifesti e appare in piena luce la loro funzione, che è quella di vincolare la vittima all’oppressore secondo modalità che diventano molto difficili da giustificare in base ad un bisogno” (p.135). Esiste una relazione perversa: “la parte del Sé cosiddetta “sana ma debole” collude con la gang narcisistica e scientemente le permette di dominarla” (p.136).
Anche l’analista può diventare parte dell’organizzazione diventando a sua volta vittima di un paziente persecutore o persecutore di un paziente vittima in una inversione dei ruoli. Steiner chiarisce questo complesso modello con un caso clinico: “era possibile identificare un’organizzazione narcisistica in cui le parti distruttive del Sé e gli oggetti distruttivi erano idealizzati, e che traeva la sua forza anche da un’identificazione con le persone che lui chiamava “gli alti papaveri”, e sembrava acquisire un potere sulla personalità presentandosi come un custode adeguato per il Sé dipendente e bisognoso, in effetti il tono di superiorità che si avvertiva nel suo modo di esprimersi serviva a sminuire qualunque cosa io potessi dire, e l’organizzazione narcisistica manteneva il Sé libidico atrofizzato e sottosviluppato” (p.139). il paziente aveva un chiaro insight circa l’essere dominato da un’organizzazione distruttiva che bloccava la sua evoluzione ma questo non era sufficiente a non colludere in modo perverso con l’organizzazione. Una ulteriore complessità era data dal fatto che la scissione non era tra buono e cattivo perché sia le parti bisognose che quelle distruttive avevano elementi buoni e cattivi. Una delle conseguenze di questo complesso meccanismo riguarda il processo con il quale avviene la perversione del Sé libidico che ottiene una gratificazione di tipo masochistico.
Gli elementi distruttivi del Sé insieme agli oggetti distruttivi sono personificati e proiettati negli oggetti; la parte dipendente e bisognosa del Sé è tenuta prigioniera dalla gang ed è impotente a modificare la situazione.
Come già detto, non avviene una scissione tra buono e cattivo: quella parte che cerca di proteggere il “bambino” non riesce ad arginare la crudeltà; analogamente, il Sé bisognoso e dipendente accetta e chiede la protezione ma anche lo sfruttamento perverso.
“Il collante che tiene insieme gli elementi di un’organizzazione patologica è la perversione, e per la gratificazione che procura sia alla vittima sia al criminale, è difficile che venga abbandonata” (p. 146)
5. Problemi di tecnica psicoanalitica: interpretazioni centrate sul paziente e interpretazioni centrate sull’analista.
I pazienti che fanno un uso eccessivo del rifugio non sono interessati alla comprensione del loro funzionamento e prediligono la staticità rassicurante in una condizione protetta ma non evolutiva. L’alternativa è vissuta come una pericolosa esposizione a forti angosce persecutorie o depressive. Questo può indurre l’analista a diventare intrusivo per la spinta ad una comprensione forzata che a sua volta rinforza il ritiro nel rifugio, oppure possono renderlo troppo passivo e collusivo abbandonando il paziente al proprio isolamento.
In questa particolare condizione il paziente non è interessato ad acquisire comprensione del proprio funzionamento; tuttavia, può avere un forte bisogno di essere compreso dall’analista.
Il contenimento necessario per una adeguata gestione del materiale proiettato può risultare insufficiente e l’analista, se persevera nell’interpretare al paziente ciò che egli pensa o fa, può risultare addirittura minaccioso. Il paziente proietta sull’analista elementi di cui si deve disfare perché non è in grado di contenerli e il suo bisogno è che restino nell’analista ed è lì che possono essere compresi, in quella sede di proiezione.
Per il paziente è quindi preferibile comprendere quello che accade, secondo lui, nella mente dell’analista piuttosto che nella propria. Queste sono le cosiddette “interpretazioni centrate sull’analista” che prendono la forma di frasi come “lei mi vive come …”, “lei teme che io …”, “lei si sente sollevato che io …”, “lei percepisce il mio silenzio (o qualunque comportamento) come conferma del fatto che io …”. Queste interpretazioni sono rivolte alla comprensione del significato di quello che fa l’analista secondo la percezione del paziente ma non sono vissute come intrusive, giudicanti, accusatorie o minacciose come può capitare con pazienti ritirati nel rifugio quando l’attenzione è rivolta direttamente al loro funzionamento con le interpretazioni centrate sul paziente. In altre parole, le interpretazioni centrate sul paziente comunicano comprensione, mentre quelle centrate sull’analista possono dare maggiormente la sensazione di essere compreso. È chiaro che questa distinzione non è così rigida e un ruolo fondamentale è svolto dall’intenzione e dall’intonazione: l’intenzione di dare significato alle rappresentazioni mentali che il paziente ha dell’analista e l’intonazione che deve risultare il meno critica, il meno accusatoria possibile, consapevole dell’elevato livello di distorsione che le angosce persecutorie del paziente possono provocare. Una volta che sia stata definito anche in modo preliminare quello che, secondo il paziente, accade nella mente dell’analista, diventa più accettabile collegare una conseguente ipotesi sul funzionamento del paziente “lei mi percepisce come indifferente e questo induce lei a …”. Questo legame apre quindi ad un ampliamento sul paziente ma in modo consequenziale.
La complessità della gestione dei pazienti fortemente ritirati nel rifugio riguarda da un lato l’identificazione proiettiva agita dal paziente dall’altro le difficoltà controtransferali dell’analista con una difficile messa alla prova della sua capacità di contenimento. Il controtransfert è una risorsa fondamentale per la comprensione del funzionamento del paziente e dei pensieri e delle azioni indotti nell’analista. Il continuo sforzo di attenzione e analisi delle reazioni controtransferali fatta autonomamente o con l’aiuto di discussioni tra pari o in supervisione protegge da agiti. Grazie ad un attento ascolto del controtransfert l’analista è maggiormente in grado di fare interpretazioni che siano davvero capaci di contenimento del materiale proiettato rendendolo quindi tollerabile per il paziente. Il paziente avverte sollievo grazie alla capacità di pensare dell’analista. Il contenimento favorisce l’esperienza di essere compreso e l’integrazione. Più precisamente l’esperienza del contenimento ha più a che fare con l’essere compreso che non con il comprendere. È un primo passo da P/S a D.
“Nei pazienti psicotici e borderline, così come in quei pazienti che funzionano a un livello schizoparanoide, l’esperienza di essere contenuti porta ad un sollievo ma non necessariamente produce crescita e sviluppo. Una delle ragioni è che il sollievo dipende dalla presenza continuativa dell’oggetto che offre contenimento, poiché a questo livello di organizzazione una vera separazione dall’oggetto non può essere tollerata e di conseguenza la capacità di contenere non può essere ancora interiorizzata” (p.181).
Se da un lato le interpretazioni centrate sull’analista possono costituire un primo fondamentale passo verso il contenimento, tuttavia l’eccesso di queste interpretazioni possono far pensare al paziente che l’analista sia prevalentemente interessato a sé stesso e alla propria immagine anziché affrontare le difficoltà del paziente. Anche quando le interpretazioni centrate sull’analista sono centrate e offrono contenimento, esse costituiscono una conquista parziale e temporanea a cui devono necessariamente seguire le interpretazioni centrate sul paziente ma con l’attenzione sull’attenzione e sull’intonazione. Ovviamente il giusto dosaggio dell’una e dell’altra sta nella sensibilità dell’analista. La diversa natura, eppure complementare, delle interpretazioni centrate sull’analista e sul paziente “possono essere concepiti come i simboli maschile e femminile del lavoro dell’analista. (…) Se l’analista rimane sensibile a come il paziente reagisce alla sua interpretazione e ascolta il prossimo frammento di materiale anche come un commento su quanto lo ha preceduto, allora è possibile passare in modo flessibile e sensibile da uno all’altro tipo di interpretazione” (p.184).
L’importanza che la TFP attribuisce alle interpretazioni centrate sull’analista è evidente nei video di frammenti di sedute dove Yeomans (Youtube o https://www.appi.org/) cerca di offrire contenimento all’elevatissima aggressività di due pazienti. Attraverso questo tipo di interpretazioni Yeomans cerca di stabilire un ponte preliminare che crei un iniziale e imprescindibile contenimento che inizia da quello che secondo la paziente avviene nella mente di Yeomans in relazione alla paziente e solo successivamente arriva a ipotesi su quello che sta avvenendo nella paziente.
Conclusioni
Fra i tanti modelli che descrivono condizioni di stallo esistenziale ed analitico, il modello dei rifugi della mente di Steiner ha una particolare ricchezza per come si articola fra la teoria, la clinica e la tecnica psicoanalitica.
Con una sensibilità e una finezza quasi poetica Steiner ci aiuta a orientarci nella sottile distinzione tra “essere compresi” e “comprendere”. Offre una lucida indicazione su come gestirle tecnicamente con l’interpretazione centrata sull’analista o sul paziente in situazioni di stallo per il ritiro nel rifugio della mente per difendersi da angosce schizoparanoidi o depressive.
Tutto ciò costituisce una preziosa risorsa nella complessa gestione di momenti di particolare difficoltà nel trattamento di pazienti con gravi disturbi della personalità.
Dott. Alvise Orlandini
Bibliografia
John Steiner, I rifugi della mente. Organizzazioni patologiche della personalità nei pazienti psicotici, nevrotici e borderline. Bollati Boringhieri Editore, 1996, Torino
Immagine: Ken Wong